Pubblicato di recente il mio testo “Pedagogia e Odontoiatria Speciale” (http://www.ilmiolibro.it/) destinato a studenti e laureati in Oontoiatria e PD, Igiene Dentale, ma anche per Pedagogisti, Educatori, Psicologi e Insegnanti. Il testo si compone di tre capitoli. Al primo (“Pedagogia: dare forma all’Uomo”), che riassume il cammino della pedagogia nel secolo XX, si lega coerentemente il capitolo dedicato agli aspetti psicopedagogici di una pedagogia speciale centrata sul paziente in Odontoiatria Pediatrica. L’A. passa in rassegna, con rapida sintesi, emozioni, paura, ansia, panico, odontofobia, autismo e sindrome di Down. Il libro completa e chiude con l’indicazione degli interventi psicoeducativi.
Cere anatomiche e didattica medica
QUANDO LE STATUE DI CERA AIUTAVANO GLI SCIENZIATI
Corriere della Sera 10 mag. ’11
LA STORIA DELLE RICOSTRUZIONI ANATOMICHE RACCONTATA DA JULIUS VON SCHLOSSER. ALCUNI ESEMPLARI ALL’ UNIVERSITÀ DI BOLOGNA
Quando cerchiamo un’ immagine le sofisticate tecnologie ottiche di oggi, le medesime che promettono «fedeltà assoluta», ce la restituiscono in base al pixel (contrazione della locuzione inglese picture element), ovvero ricorrendo ai puntiformi che compongono la rappresentazione nella memoria di un computer. Qualcuno rimpiange la foto o le vecchie riprese cinematografiche, ma non sono pochi a credere che soltanto un ritratto dipinto riveli anche la personalità del soggetto. Ora il testimone è gestito dai megapixel delle fotocamere. Ci fu un tempo nel quale ogni riproduzione della realtà – faccia, fiore, viscere o uomo intero – veniva affidato alla cera. La somiglianza era eccellente e, in più, essa ben rappresentava l’ idea di eterno che si desiderava conferire al soggetto ritratto. Di questa singolare avventura, capitolo di storia dell’ anatomia oltre che di estetica, con i suoi attuali luoghi di culto nei musei dedicati a Madame Tussauds (presenti, tra l’ altro, a Londra, Berlino, Hong Kong, Las Vegas, New York, Shanghai, Roma e dall’ agosto 2009 a Hollywood), esce finalmente tradotto in italiano il più autorevole degli inventari. Lo scrisse nel 1911 il sommo Julius von Schlosser: Storia del ritratto in cera (Medusa pp. 248, 16,50; cura e introduzione di Marco Bussagli). Noi, con le tecnologie di cui disponiamo, vorremmo avvicinarci sempre più all’ oggetto attraverso geometrie e colori; quello che von Schlosser passa in rassegna sono invece i ritratti tentati sino al romanticismo, cercando quella fedeltà che per secoli è stata inseguita, idealizzata, a volte abbellita. Sovente però è stata evocata impietosamente, con doppi menti, bitorzoli e strabismi. Altre volte il realismo si è fatto feticista e macabro, come capitò all’ Eva di Ercole Lelli, conservata all’ Istituto di Anatomia dell’ Università di Bologna: lo scultore settecentesco utilizzò unghie e capelli veri per la progenitrice biblica. Ma la lettura del testo di von Schlosser si fa entusiasmante proprio per i dettagli che rivela. Ecco i funerali di Pertinace nel foro romano, descritti da Dione Cassio, dove non mancava un’ effigie del morto in cera che sfilava con il corteo; ecco un passo di Vasari che riferisce sulle maschere mortuarie; ecco ancora la figura intera di Federico il Grande nel Vaterlänsdisches Museum di Braunschweig con l’ uniforme delle guerre di Successione: portamento reclinato, occhi di vetro, parrucca. La cera, insomma, ha fatto miracoli, restituendo ai nostri sguardi un universo scomparso. Il medesimo che continua a vivere congelato in chiese o musei, in raccolte o dove capita, affinché forme e volti non si dissolvano come la carne di cui erano fatti.
Torno Armando
Maria Montessori: gli anni della formazione medica (1893-1896)
Gli anni della formazione medica di Maria Montessori (1893-1896) e loro influenza nello sviluppo di una concezione scientifica della Pedagogia.
Sacrificando alquanto la biografia di Maria Montessori (Chiaravalle, Ancona 31 agosto 1870 – Noordwijk, L’Aia 6 maggio 1952), che possiamo considerare la voce più appassionata della pedagogia scientifica in Italia e, unitamente a Sante De Sanctis (1862-1935) e Giuseppe Ferruccio Montesano (1868-1951), una delle fondatrici della psichiatria infantile italiana, il lavoro che presentiamo cerca di comprendere come il triennio formativo come studentessa di Medicina e Chirurgia abbia influito sulla nascita e sviluppo del suo pensiero pedagogico.
C’è una sorta di file rouge che, lungo i secoli della storia dell’Uomo, accomuna Pedagogia (scienza fondamentalmente umanistica ma con importanti aspetti “biologici”) e Medicina (scienza fondamentalmente biologica ma con importanti aspetti “umanistici”) le cui rispettive arti erano, nell’età classica, generalmente esercitate da schiavi o liberti. Nate dalla stessa matrice, la filosofia, questi due saperi hanno più caratteristiche e prospettive in comune di quanto un superficiale esame lasci trapelare: intanto l’oggetto e lo scopo del loro interesse scientifico, l’Uomo e la sua “Cura”, l’avere-cura (educare, curare) di Esso; la relazione-con-l’Altro e il sapere “ascoltare” che caratterizzano, e in profondità, tutta la pratica professionale del medico e del pedagogista che pongono al centro del loro interesse la Persona, bambino o adulto che essa sia. In Maria Montessori medicina e pedagogia e, più in particolare psichiatria infantile-pedagogia, hanno costituito una vera e propria diade formativa, base sicura che le ha permesso di essere sia una brava dottoressa sia colei che ha forgiato Il Metodo di una pedagogia più attenta alla Cura e all’individualità del Bambino.
1893-1896: gli anni della formazione medica
Conseguita a Roma nel 1893 la licenza in Scienze Naturali e dopo avere sostenuto i previsti due esami integrativi di italiano e di latino, la ventitreenne Montessori chiese e ottenne di essere iscritta al III anno del corso di laurea in Medicina e Chirurgia dell’Università “La Sapienza” di Roma. L’iscrizione della giovane studentessa fu accettata in seguito ad apposita delibera della Facoltà (21/1/1893) sanzionata poi dal Ministero della Pubblica Istruzione (9/2/1893), come risulta dal “Fascicolo Maria Montessori” posizione RS 212, conservato presso l’Archivio Storico dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” (Matellicani A.F., 2007).
All’epoca gli studenti laureati in Scienze Naturali che intendevano conseguire la laurea in Medicina e Chirurgia, venivano generalmente iscritti al III anno con l’obbligo, sancito dai regolamenti universitari, di assistere ai corsi di Anatomia Umana Normale, Anatomia Topografica e Istologia, con le relative esercitazioni. Nella facoltà medica la Montessori ebbe modo di seguire i corsi di Anatomia topografica, Anatomia microscopica e di Anatomia del sistema nervoso centrale curati rispettivamente da Francesco Todaro (1835-1918) medico e senatore del Regno, Michele Giuliani (1845-1894) e il neuroanatomista e neuropatologo Giovanni Mingazzini (1859-1929), suoi “vecchi” professori nel precedente corso di laurea.
Nella facoltà medica romana la Marchigiana, oltre i citati docenti, ebbe come maestri personaggi illustri, a tutt’oggi ricordati nelle pagine di storia della medicina e della politica italiane, il fisiologo e senatore del Regno Jakob Moleschott (1822-1893), in cattedra a Roma fin dal 1878; strenuo assertore, col patologo generale Giulio Bizzozero, del positivismo e del metodo sperimentale in medicina), l’anatomopatologo Ettore Marchiafava (1847-1935), l’igienista e deputato marchigiano Angelo Celli (1857-1914), il clinico medico e più tardi ministro della Pubblica Istruzione Giudo Baccelli (1832-1916), lo psichiatra e deputato marchigiano Clodomiro Bonfigli (1838-1909), il pediatra viterbese Luigi Concetti (1855-1920), per citarne alcuni.
Primo pilastro: antropologia.
Nella facoltà di Scienze Naturali, la giovanissima Montessori, oltre i citati Todaro, Mingazzini e Giuliani, ebbe come docente Giuseppe Sergi (1841-1936), illustre antropologo e fondatore del primo Laboratorio di Psicologia Sperimentale (1889) dell’ateneo capitolino che si occupava anche di temi francamente pedagogici. Il professore (il “mio Maestro” come lo chiamò nella prefazione alla montessoriana Antropologia Pedagogica del 1910), convinto assertore di una antropologia evoluzionista e sperimentalista ma con tentazioni tipicamente lombrosiane, sollecitò sempre la sua allieva a rivolgere all’educazione e all’istruzione dei “fanciulli” le conoscenze antropologiche. Sergi propose che tutti i dati antropologici, psicologici e pedagogici riguardanti gli allievi venissero raccolti accuratamente all’interno di una cartella, la cosiddetta Carta biografica. Come dire che per conoscere il bambino non è sufficiente un solo punto di vista, ma una integrazione di vari saperi, antropologia compresa. A Giuseppe Sergi <>.
La conoscenza del bambino, la valorizzazione della sua individualità, possibile grazie alla metodologia e gli strumenti dell’antropologia e della psicologia, ed è questa la lezione di Sergi che la Montessori fece propria, sarà la base della “sua” pedagogia scientifica. <>. Infatti, rimarca ancora, <>. Metodi antropometrici e osservazione continua, ripetuta e documentata del comportamento infantile (sembra quasi rimandarci all’indagine etnografica dove il modello cognitivo prevalente è appunto l’osservazione, in questo caso partecipante) che adotterà la Montessori nelle Case dei Bambini (1907), risentono indubbiamente della sua formazione scientifica, e, nello specifico, proprio di quella della scienza antropologica.
Oltre alla metodologia antropologica la giovane Montessori fece proprie, in senso squisitamente formativo, le battaglie del suo Maestro per il progresso civile della società, condividendo la lotta contro la miseria, l’analfabetismo e ribadendo la necessità di una pedagogia attenta ai bisogni educativi e di crescita personale di tutti i membri della società e, in particolare modo dei bambini. Nel 1892, nella prefazione al suo Educazione ed istruzione. Pensieri, Sergi affermava che <>. Non può non intravedersi una Antropologia, certamente scienza naturale, ma con l’altra sua faccia: quella di scienza umana. Lezione, questa, dell’antropologo Sergi, di ampia portata pedagogica! La positivistica, rigida e statica misurazione e classificazione antropologica di Sergi <>, aprendosi all’universo dinamico dell’educazione dell’Uomo: è la fondazione o, se si preferisce, l’esigenza di una pedagogia scientificamente “attrezzata”. Questo sarà il sentiero <>, indicato dal suo Maestro, che percorrerà Maria Montessori. A Educazione ed Istruzione di Sergi, come preciserà la stessa Pedagogista marchigiana, farà <>.
Il professore romano non dimenticò mai la sua promettente allieva. <> scriveva nel 1914 Sergi a proposito della pedagogia montessoriana delle Case dei Bambini, pedagogia che <>. Il “nuovo metodo” di Maria Montessori, vero approccio “puerocentrico”, metterà in discussione fino a ribaltare il modello pedagogico, allora imperante, della supremazia dell’adulto sul bambino privilegiando il principio dell’autoeducazione (il maestro deve aiutare il bambino a fare da solo), rispettando i tempi di apprendimento dell’allievo e coordinando, come un regista, l’attività didattica del gruppo-classe.
Secondo pilastro: igiene e pediatria.
Maria Montessori, grazie a Sergi maturò l’idea, tutta positivistica, che la scienza, e come darle torto, non era solo quella che si “praticava” negli istituti e nei laboratori, neutra, lontana dal mondo della “gente”, ma che, al contrario, fosse al servizio dell’umanità, proprio come la Medicina e la Pedagogia! Ma per raggiungere la sua agognata meta, diventare medico, proprio quelli Istituti e Laboratori doveva pur frequentarli! Il nuovo ambiente della facoltà medica non le era affatto estraneo. Cominciò a seguire i corsi di Anatomia Umana Normale, di Fisiologia Sperimentale, Patologia Generale e Materia Medica.
L’approccio “pratico” con la Medicina e, nel concreto proprio con l’Anatomia Umana (clavis medicinae) non fu semplice né indolore per la giovane studentessa! La visione del corpo umano dissecato la turbava non tanto perché le evocava l’immanenza della morte, ma perché la chiamava, qui e ora, all’emozionalità, tutta femminile, del confronto con il corpo e la corporeità, lei, unica donna “gettata” in mezzo ai colleghi maschi a “toccare” corpi o parti di esso. Sembra cogliersi nella studentessa marchigiana che “osservava” e “toccava” il corpo umano senza veli, freddo e inerte “deposto” sul tavolo anatomico, non tanto il distaccato sguardo e la precisa tecnica dissettoria dell’anatomico, quanto una “vicinanza” empatica, emotiva, compassionevole (“cum passio”) con l’Uomo, anche se divenuto cadavere. Si coglie nella giovane Montessori una sorta di bipolarità, mentre da un lato offre un’immagine di sé forte, temeraria, positivista, dall’altro sembra non accettare la visione troppo oggettivista del positivismo di conoscere e concepire l’Uomo, indifferente alle sue emozioni. <>, scriverà nel Il Metodo del 1909.
Il “toccare” di cui scrive la Montessori sembra infatti rimandarci più che a un atto di tecnica anatomica, a una azione “lieve”, quasi carezzevole, pietosa (“pietas”) e a una sorta di metaforizzazione, psicologica e culturale, del corpo umano stesso e ai “valori” che al corpo e alla corporeità sono socialmente attribuiti. In effetti l’attenzione al corpo, alla corporeità e alle emozioni costituirà uno dei pilastri della futura pedagogia montessoriana. Ma forse (il condizionale è d’obbligo) vi è un altro aspetto che può avere toccato la sensibilità della giovane studentessa: ci riferiamo al fatto che i cadaveri destinati alle Facoltà medico-chirurgiche per i diversi insegnamenti erano per la maggior parte persone decedute senza assistenza sanitaria, detenuti, mendicanti, sconosciuti deceduti in suolo pubblico, ospiti dei Manicomi.
Contemporaneamente alle lezioni ed esercitazioni anatomiche, la Montessori frequentava invece con molto interesse e passione le lezioni di Fisiologia con Moleschott e quelle di Igiene con Angelo Celli docenti aperti alle tematiche della medicina sociale che, in quel periodo di fine secolo, denunciava le precarie condizioni di vita, inadeguata alimentazione e scarsa igiene di larga parte della popolazione e soprattutto dei ceti più poveri.
Frequenti erano infatti rachitismo e pellagra (tipiche malattie da carenza alimentare), ma anche tisi, infezioni e malattie della pelle. Chi pagava un pesante tributo alla povertà (intesa nel senso più lato del termine), e gli elevati indici di mortalità lo documentano impietosamente, erano soprattutto i bambini delle classi sociali più disagiate, sottoalimentati, non istruiti utilizzati come forza-lavoro per incrementare i bilanci familiari. Ma vi era un altro fenomeno di cui si interessarono molti studiosi (specialmente giuristi, pedagogisti e antropologi) e medici (soprattutto antropologi criminali, medici legali, psichiatri e igienisti) tra la fine del XIX secolo e i primordi di quello successivo e che contribuì alla nascita della Psichiatria Infantile: stiamo alludendo al fatto che l’industrializzazione e, soprattutto, il crescente urbanesimo favorirono il rapido aumento della delinquenza minorile e l’emergere del problema dell’inserimento sociale dei fanciulli “deficienti”, come all’epoca venivano classificati.
Moleschott e Celli, seppero trasmettere alla loro allieva l’ideale di una Medicina che, oltre a interessarsi di malati e malattie, guardava al “sociale”, educava e istruiva –vera Igiene pedagogica- col dichiarato obiettivo di debellare quattro grandi mali dell’epoca: ignoranza, povertà, sottoalimentazione e pregiudizi. Una siffatta Medicina non poteva certamente rinchiudersi intra moenia nelle divisioni ospedaliere o negli istituti e cliniche universitarie ma, al contrario, cercava alleati, soprattutto con l’istituzione scolastica, nella battaglia contro le precarie condizioni igienico-sanitarie in cui versava gran parte della popolazione e contro <>. Le lezioni di Igiene Sperimentale e Igiene applicata alla Polizia Sanitaria del marchigiano Celli, in cattedra dal 1886, avvicinarono la Montessori ai grandi temi della medicina sociale. Fondatore, nel 1890, della Società di Igiene e Medicina Tropicale e nel 1898, con G. Fortunato e L. Franchetti, della Società per gli Studi sulla Malaria, fautore della profilassi antimalarica con un approccio sperimentale, si occupò anche dell’assistenza sanitaria e dei problemi dell’infanzia. Nel 1892, per iniziativa della “Società Soccorso e Lavoro”, l’igienista fondò a Roma l’ambulatorio “La Scarpetta” destinato che, oltre all’assistenza medico-pediatrica ai bambini poveri, si proponeva anche il dichiarato obiettivo, di grande respiro pedagogico, di insegnare ai genitori e alle persone più bisognose a sapersi servire dell’assistenza sanitaria gratuita. Nell’ambulatorio trasteverino prestavano servizio volontario, accanto alle donne aderenti all’Associazione Femminile, la giovane moglie di Celli, Anna Fraentzel e la studentessa Montessori.
Un grande impulso a interessarsi dei problemi dell’infanzia “disagiata”, ma da un punto di vista francamente medico, venne alla Montessori dalla frequenza alle lezioni di Patologia e Clinica Pediatrica impartite nell’ateneo capitolino dal viterbese Luigi Concetti (1855-1920) e seguitissime dagli studenti. Fin dal 1871-72 le patologie pediatriche venivano comprese all’interno dell’insegnamento di “Ostetricia e malattie speciali delle donne e dei bambini” (ricoperto da Ercole Pasquali) che, a discapito del nome, si occupava prevalentemente delle patologie dei neonati. A partire dal 1896, grazie all’allora Ministro della Pubblica Istruzione Guido Baccelli, venne istituita la prima vera cattedra di Pediatria, affidata appunto al Concetti, che si occupò finalmente anche delle malattie dei bambini e degli adolescenti.
Veramente imponente appare la produzione scientifica del pediatra viterbese, fra i primi nel nostro Paese ad applicare la sieroterapia antidifterica, a studiare la meningite cerebro-spinale epidemica e altre forme di meningite, la pratica –allora temutissima- della puntura lombare nei bambini, per citare solo alcuni dei suoi contributi scientifici. Ma oltre che valente clinico, scienziato e docente, viene ricordato anche come attivissimo nel campo della pediatria sociale, promotore primo Congresso Italiano di Pediatria (1890), socio fondatore e poi presidente della Società Italiana di Pediatria (1903) e cofondatore, con Giuseppe Mya, della “Rivista di Clinica Pediatrica” (1904).
L’influenza degli insegnamenti e l’esempio “sul campo” dei suoi Maestri, Sergi, Moleschott, Celli e Concetti, trovarono terreno fertile nella studentessa marchigiana che già, come visto, aveva rivolto il suo interesse verso le tematiche dell’infanzia “disagiata” in un’ottica medico-sociale e ancora timidamente pedagogica.
Terzo pilastro: psichiatria.
Ventidue anni prima della laurea della Montessori, nel 1874, in occasione dell’XI Congresso degli Scienziati Italiani, venne fondata a Roma la “Società Freniatrica Italiana” che, pur ribadendo il carattere medico della Freniatria, intendeva costituirla quale disciplina autonoma della Medicina avente per oggetto proprio lo studio dell’anatomia, fisiologia e patologia del cervello e del sistema nervoso; psichiatri e neurologi lavorarono fianco a fianco fino al 1907, anno di costituzione della Società Italiana di Neurologia Uno dei primi atti della neonata associazione fu quello di uniformare la classificazione delle malattie mentali, avviare un’indagine statistica sulle patologie psichiatriche in Italia e studiare un nuovo regolamento per gli “Asili Mentali”. Nel 1875 l’allora Direttore dell’Asilo Mentale Reale di Reggio Emilia, Carlo Livi (1823-1876), studioso di problemi psichiatrico-forensi, fondò la “Rivista Sperimentale di Freniatria e di Medicina Legale in relazione con l’Antropologia e le Scienze Giuridiche e Sociali” che per oltre un trentennio fu la “vetrina” della psichiatria italiana nel mondo. Sotto la direzione di Augusto Tamburini (1848-1919), psichiatra e allievo del Livi, la Rivista Sperimentale di Freniatria si fuse, nel 1877, con gli “Annali Frenopatici Italiani” (giornale che dal 1863 rappresentava il R. Morotrofio di Aversa e la Società Frenopatica Italiana fondata nel 1861 da Biagio Miraglia) e, nel 1891, con il periodico ”Archivio Italiano per le Malattie Nervose e più particolarmente per le alienazioni mentali”, fondato da Andrea Verga nel 1864. Nel 1896 vede la luce la “Rivista di patologia nervosa e mentale” fondata da Tamburini, Enrico Morselli (1852-1929) e Eugenio Tanzi (1856-1934) la cui direzione, nel 1906, passerà a Ernesto Lugaro (1870-1940) allievo del Tanzi. Nel 1897 Ezio Sciamanna, direttore della clinica psichiatrica di Roma, e Giuseppe Sergi fondano la “Rivista quindicinale di psicologia, psichiatria, neuropatologia”.
Anche i luoghi della carità e dell’assistenza ai “poveri mentecatti”, così come avvenne anche per gli ospedali generali, si clinicizzano sempre più divenendo dapprima “Asili Mentali” e, in seguito, Manicomi, luoghi di custodia e cura. Dalla seconda metà del XIX secolo il Manicomio diverrà anche luogo di studio e di ricerca sulle “sedi” e “cause” delle malattie del cervello ma anche l’ospedale di riferimento per neurologi e psichiatri; al suo interno troveranno posto diversi servizi, da quello anatomopatologico (nella cartella clinica vi era una sezione dedicata dapprima alla “sezione cadaverica” modificata, a partire dagli Anni ’70, dalla dicitura “reperto necroscopico”) ai vari Gabinetti e Laboratori destinati non solo alla pratica clinica, ma anche alla ricerca neuropatologia.
Al S. Maria della Pietà, per rimanere circoscritti al Manicomio romano che la Montessori frequentò come tirocinante e come medico, si era oramai compiuto il passaggio dalla scienza alienistica di Domenico e Giovanni Gualandi (padre e figlio) alla neuropatologia e clinica neuropatologica di Giuseppe Mingazzini e Clodomiro Bonfigli. Nel 1895 contemporaneamente alle lezioni di Clinica Psichiatrica, impartite dal marchigiano prof. Bonfigli, l’oramai laureanda Maria Montessori, concluderà la sua formazione universitaria come studentessa interna della Clinica Psichiatrica universitaria, diretta da Ezio Sciamanna (1850-1905) e all’epoca accorpata al S. Maria della Pietà. In quell’anno l’intero corso di Clinica Psichiatrica fu dedicato dal Bonfigli, particolarmente interessato al problema dei bambini “deficienti”, al rapporto tra educazione infantile e malattia mentale; veniva ribadita l’importanza, per i bambini, di ricevere una congrua (non carente) educazione che permettesse un “sano” sviluppo del carattere e del senso morale. specialmente per quanto riguardava lo sviluppo del carattere e la costruzione del senso morale. Finalmente una Medicina che, più vicina all’ideale che andava maturando sempre più la giovane Montessori, si occupava non solo del corpo, ma “andava verso” la Persona proponendosi come una delle possibili risposte non solo contro le malattie, ma anche per contrastare la miseria e la povertà che ancora interessavano larghe masse del Regno d’Italia.
Nell’anno 1895-96, durante il suo internato nella clinica psichiatrica romana vennero esaminati diversi casi di allucinazioni alcuni dei quali, dietro precisa autorizzazione del Bonfigli, vennero seguiti direttamente da lei direttamente e da Sante De Sanctis (allievo del Sergi e di Sciamanna) assistente dal 1892 nella Clinica Psichiatrica. La casistica clinica le servì a sostegno del lavoro di tesi su “Contributo clinico allo studio delle allucinazioni a contenuto antagonistico” che discusse il 10 luglio del 1896 con il Prof. Ezio Sciamanna.
Neuro(bio)logia, educazione, cultura, apprendimento: la neuropedagogia.
Ignazio Lai
Neuro(bio)logia, educazione, cultura, apprendimento: la neuropedagogia.
Nell’ottica biopedagogica, termine coniato dal biologo, etologo e filosofo francese Laborit, “interessarsi” al cervello umano non significa scrutare un organo, bensì considerarlo in rapporto alla totalità-corpo e alla cultura dove questa totalità vive, si struttura e si organizza. Totalità “organizzata” bene rappresentata dalla pedagogia che si interessa a tutte quelle condizioni che permettono all’uomo di passare dall’etero- all’autoeducazione ovvero la sua capacità di costruire il proprio <> (Larocca, 1994, p. 35). Il passaggio all’autoregolazione è di fondamentale importanza nella prassi educativa! Infatti la maggior parte degli apprendimenti si attua per mezzo della trasmissione culturale e gli attori coinvolti (genitori, insegnanti, formatori, educatori) giocano un ruolo fondamentale non solo come “trasmettitori” di conoscenze, ma anche come mediatori tra il soggetto e la nozione da apprendere. Non solo, tutti i processi di apprendimento possiedono importanti dimensioni, socioculturale (il gruppo di appartenenza) e ambientale (la realtà “distribuita” tra il soggetto e “l’intorno”, comprese le relazioni), che partecipano attivamente, sia come quadro di riferimento valoriale (che danno senso a ciò che facciamo), sia fonte di stimoli (si pensi, per fare un solo esempio, alla richiestività ambientale e/o agli innumerevoli stimoli che possono interferire nel processo apprenditivo o educativo). Le dimensioni bioeducativa e neuropedagogica, rimarcando il rapporto mente/cervello e apprendimento/conoscenza, mostrano le strette connessioni tra processi formativi, aspetti biologici e educazione. L’azione educativa orientata a sviluppare le capacità esistenti o a crearne di nuove è dunque il perno intorno al quale ruotano studi e ricerche bio-neuropedagogiche che hanno dimostrato abbondantemente l’importanza di potere disporre (anche “costruendoli”, come nell’atto educativo) di stimoli “coinvolgenti” in grado di modificare biochimicamente le reti neuronali dell’individuo. Il concetto neuropedagogico di educazione riguarda dunque non solo la formatività dell’Uomo, ma anche la sua educabilità neuronale intesa in termini biologici di plasticity. In una prospettiva antropologico-evoluzionista (evolutionary perspective) e biologico-pedagogica (bio-pedagogical perspective), possiamo intendere l’educazione come un processo di apprendimento sociale che consente agli individui di maturare ed emettere comportamenti adattivi all’ambiente e ai vari cambiamenti ambientali, spesso assai rapidi, che garantiscono il mantenimento in vita dell’organismo e il passaggio con successo alle generazioni future. L’apprendimento così inteso, oltre che essere un garante dell’evoluzione della specie ribadisce ancora una volta che il soggetto che apprende e il suo ambiente sono da intendersi come una unità di apprendimento.
L’apprendimento è un complesso processo mediante il quale gli individui acquisiscono, elaborano e trasformano nuove conoscenze. Pur essendoci circa una decina di teorie sull’apprendimento, le più “accreditate”, soprattutto per le ricadute didattiche, sono quelle di matrice comportamentiste (associazione S-R, viene studiato analizzando le connessioni fra stimoli e risposte: fatto “molecolare”) e cognitivististe (processo conoscitivo che trae origine dal bisogno di costruzione e di strutturazione del reale, implicito nell’interazione io/ambiente; viene studiato analizzando i cambiamenti che avvengono nelle strutture cognitive del soggetto e nella sua personalità: fatto “molare”). Accanto a queste teorie “forti” si colloca quella fenomenologica-umanistica che considera l’apprendimento come un fatto globale che interessa l’individuo, la sua personalità che viene co-involta in questo processo non solo a livello cognitivo, ma anche emotivo e affettivo. Apprendimento dunque collegato al bisogno di crescita individuale e in grado di ristrutturare la personalità di chi apprende; modello questo di interesse non solo didattico, ma anche clinico. Apprendere significa acquisire conoscenze (esperienze) in grado di modificare in maniera duratura i comportamenti di un organismo. Tutti i professionisti che si occupano di apprendimento, primi fra tutti gli insegnanti, quotidianamente sperimentano che esso è influenzato da fattori affettivi, relazionali, emozionali, stress acuti e cronici; gli stessi fattori che influenzano la funzionalità immunitaria e, in ultima analisi, la salute. Se è vera l’unità organismo-ambiente, lo è altrettanto l’impossibilità di separare l’organismo dal suo ambiente all’interno del quale esso si organizza e vive le quotidiane esperienze che, oramai è assodato, contribuiscono a plasmare il cervello umano provocando l’attivazione di determinati circuiti neuronali, consolidando sinapsi preesistenti o creandone di nuove. Già dal 1982 il viennese Eric R. Kandel, americano di adozione, studiando l’Aplysia Californica, evidenziava come l’apprendimento producesse cambiamenti nelle strutture neuronali (Kandel E.R, Schwartz J.H., 1982); a più riprese, estese le sue brillanti osservazioni anche alla psicoterapia che, considerata una forma di apprendimento, produceva pure essa mutamenti nel cervello (Kandel, 1989, 1998). Vi sono oramai evidenze empiriche che dimostrano come, tra il bambino e il primary caregiver, le esperienze interpersonali precoci (interazioni emozionali) sono in grado non solo di sviluppare le capacità cognitive, ma anche di fungere da regolatori (o disregolatori) di ormoni che influenzano direttamente la trascrizione genica (Schore, 1996, 1999, 2003; Pally, 2000). Viceversa, l’assenza di esperienze, ma anche gravi carenze di cure educative possono condurre a fenomeni di “pruning and truncation” (potatura e eliminazione) di elementi non utilizzati e, nei casi più gravi, anche a necrosi degli elementi cellulari; se ciò accade nei periodi critici dello sviluppo, può dare origine o esacerbare anche problematiche neuropsichiatriche. Sembrerebbero essere state individuate le aree cerebrali dove vengono attivati gli schemi neuronali scaturiti da esperienze traumatiche vissute nell’infanzia, come, per esempio, l’abuso sessuale, il maltrattamento fisico e/o psicologico e l’abbandono. <> scriveva LeDoux (1996, p. 252).
Lo sviluppo del cervello, in altri termini, è un processo esperienza-dipendente (Siegel, 2001); spetterà all’educazione (intesa in senso lato) il compito di “umanizzare” il cervello e di permettere a ciascun individuo di divenire un’entità unica, non uguale a nessun’altra. Molte scienze, tra le quali la stessa neuropedagogia e la neurodidattica devono molto alla scoperta della plasticità neuronale ovvero al fatto che il cervello umano è in grado di produrre costantemente neuroni il cui numero e forza connettiva sono, come visto, influenzate dall’esperienza. Quando il gene è stato attivato da processi di sviluppo cellulare, l’espressività genica è fortemente regolata/influenzata dai fattori/segnali ambientali che si manifestano nel corso della vita; è proprio l’interazione fra le cellule che rappresenta il principale fattore che dirige il corretto assemblaggio del cervello. Successivamente saranno l’esperienza, i nuovi apprendimenti e la cura educativa tout court a forgiare e regolare l’efficacia di nuove connessioni interneuronali, intervenendo, in tal modo, nel processo di modificazione strutturale e funzionale del cervello. La struttura fisica del cervello dunque non si sviluppa solo perché le viene garantita una funzione trofica ma anche perché i nuovi apprendimenti e l’esperienza favoriscono nuove connessioni neuronali e conseguente secrezione di neurotrasmettitori chimici che facilitano la trasmissione dell’informazione da un lato e la conseguente attivazione di funzioni cognitive specifiche dall’altro.
Appaiono di straordinaria importanza, in un’ottica neuropedagogica e neuroeducativa (neuropedagogia a orientamento riabilitativo), i risultati di ricerche elettrofisiologiche e di neuroimaging sulla plasticità cerebrale che hanno dimostrato come le zone del cervello normalmente (nel senso di individui senza patologie neurosensoriali) preposte all’analisi delle informazioni uditiva e visiva, negli individui adulti non-udenti o non-vedenti, vengono attivate da stimoli sensoriali differenti (Neville et al., 1998; Neville, Bavalier, 1998). Ciò a conferma di quanto si scriveva, ovvero che l’organizzazione funzionale del cervello è certamente determinata biologicamente, ma che apprendimento ed esperienza e, non ultima, l’educazione, risultano fondamentali nella sua futura maturazione e/o (ri)organizzazione. L’educazione quindi è un atto intenzionale che “indirizza” l’organismo (corpo-mente-cervello) a interagire con l’ambiente esterno e, soprattutto nella prima infanzia (primi tre anni di vita), favorendo l’apprendimento-esperienza, sembra avere maggiori effetti sulla maturazione (“assemblaggio”) del cervello consentendo la creazione di un numero elevatissimo di connessioni neuronali. Numerosi studi di imaging funzionale hanno infatti evidenziato variazioni di forza delle connessioni neurali durante l’attività di alcune regioni cerebrali dopo l’apprendimento. Da un punto di vista filogenetico l’evoluzione del sistema nervoso ha permesso anche l’affinarsi evolutivo dei saperi e questo in un processo ciclico che continua tutt’ora; l’educazione in questo processo non gioca un ruolo marginale: tutt’altro!
Dopo quanto scritto, possiamo in sintesi definire l’educazione “naturale” come un processo tendente a insegnare al cucciolo di uomo abilità (cognitive, emotivo-relazionali e comportamentali) che garantiscano all’individuo la piena crescita personale, autonomia e adattabilità ambientale. In questo modello “naturale”, come meglio specificheremo, grande importanza acquisiscono tutti quei processi di Cura educativa entro cui sono compresi anche le prime relazioni che il neonato instaura col caregiver e dalla cui qualità dipenderanno i futuri comportamenti sociali dell’adulto. L’educazione è dunque un potente dispositivo che “insegna” al cervello a essere proattivo, ovvero essere in grado di anticipare le azioni, in qualche modo già contenute in esso (Gamelli, 2005, p. 48). La scoperta dei neuroni specchio (anni Novanta del XX secolo) ci fa inoltre comprendere che <> (Bellatalla, 2006, p. 58).
L’educazione professionale possiamo invece intenderla come un sistema intenzionale e pianificato che, attraverso la relazione educativa, tende a modificare l’”esistente”: per esempio, incrementando abilità, riducendo comportamenti disfunzionali, incrementando stili di vita salutari, fino a modificare –che lo si voglia o no- la stessa struttura di personalità. Il citato documento del Comitato Nazionale di Bioetica è esplicito al riguardo: l’educazione si può intendere <> (Bioetica con l’infanzia, 1996, pp. 39-40). La neuropedagogia, rimandando alle neuroscienze e alle stesse scienze dell’educazione una visione più completa, meno frammentata di educazione e di apprendimento, rimarca il concetto bioeducativo che education (intesa nel senso di educazione e di istruzione) e learning sono sia prodotti culturali che processi biologici. Educare e apprendere esemplificano più di altri l’unità mente-cervello-corpo: infatti nella persona che viene educata o che apprende si attivano processi cerebrali (mentali) dovuti ai vari circuiti tra neuroni che, attraverso il corpo di cui essi fanno parte, compiono esperienze educative e di apprendimento. È intuibile l’interazione educazione-ambiente-biologia e, da un punto di vista neuropedagogico, non si può non concordare col filone di studi che sostengono le complesse interazioni tra geni e ambiente nella “messa in forma” della struttura cerebrale che si sviluppa certamente su basi geneticamente determinate, ma solo in risposta a precisi stimoli ambientali, tra cui, appunto, l’educazione e l’apprendimento.
Ma nel setting educativo il pedagogista e l’educatore professionale devono avere chiara anche la capacità di mettere in relazione gli “eventi” cerebrali con le esperienze personali che un determinato individuo esprime attraverso il proprio corpo sia a livello descrittivo (gestuale e verbale) che narrativo. Il pedagogista e l’educatore, in altri termini, devono “possedere” una (neuro)biologia capace di superare non solo la contrapposizione natura-cultura (Tort, 1996), ma anche di avere ben chiaro “dove” agisce il loro “fare” educazione professionale. Ci stiamo riferendo a una pedagogia “psicosomatica” (pedagogia del corpo), a una pedagogia cioè che ha bene chiara intanto la relazione che intercorre tra la mente e il corpo e quindi cosciente del fatto che l’educazione si riferisce alla totalità mente-corpo e che l’educare “sviluppa” il cervello. Un esempio chiarirà meglio il concetto. Quando un educatore, in presenza di un bambino interessato da ADHD, attua un trattamento psicopedagogico utilizzando la tecnica delle autoistruzioni verbali o incrementando abilità di problem-solving, su “che cosa” (il “chi” è abbastanza chiaro: il bambino nella sua totalità e irripetibile individualità) sta realmente operando? La risposta appare scontata: sulla totalità corpo-mente-cervello, definita da Damasio <> (Damasio, 2003b, p. 233). L’educare e il formare si riferiscono a un corpo da “ascoltare”, fatto anche di gesti e movimenti, inteso sia come entità biologica che come fenomeno storico e culturale.
Ancora, quando un pedagogista ascolta il racconto-narrazione di una qualsiasi Persona con cui entra in relazione professionale, oltre che percepirla “fisicamente” (immagine, odori, sensazioni, ecc.), attribuisce un proprio significato ai suoni e alle frasi, le comprende, traducendole quindi in un lessico pedagogico, per poi riformularle a quella determinata persona in termini a lei comprensibili e condivisibili. Siamo nel cosiddetto livello comunicativo-informazionale (costituito da tutte le strategie comunicative e informative messe in atto dai soggetti coinvolti) e nel livello significativo (i significati che i soggetti coinvolti assegnano ad ogni evento e che possono anche essere dissonanti) che molta importanza hanno nella relazione professionista-cliente o medico-paziente. Per la pedagogia (neuro)biologicamente fondata il ciclo ermeneutico (traduzione e transduzione) si spiega (e si basa) anche su ben precisi processi cognitivi e neurofisiologici: questo per ribadire ancora una volta che un organismo è una unità psicofisica, ovvero corpo-mente-cervello che <> (Damasio, 2003b, p. 232). L’attività cerebrale <> (Damasio, 2003b, p. 232). E il corpo? Cervello e corpo, sostiene Damasio, <> (Damasio, 1995, p. 138). Non solo! Il corpo è co-involto nel processo intellettivo e in quello decisionale, la “razionalità all’opera”, come lo chiama Damasio. Il seguente passo è illuminante: <> (Damasio, 1995, p. 245). Non è questa la sede per occuparci più in profondità dell’ipotesi del “marcatore somatico”, ci limiteremo a richiamare un breve passo del neurobiologo portoghese che ci lascia intendere la funzione di segnale di allarme del marcatore e che permette di “indirizzarci” verso una decisione o soluzione di un problema. Ecco la descrizione che ci lascia Damasio. <> (Damasio, 1995, p. 246). Dunque il marcatore somatico, sotto forma di immagine nella mente e di stato somatico nel corpo, inibisce o incentiva (rende più efficiente) l’assunzione di una determinata decisione: <> (Damasio, 1995, p. 245). I marcatori somatici, continua Damasio <> (Damasio, 1995, p. 245). E’ una mente incarnata quella che propone l’approccio neurobiologico di Damasio, dove non trovano posto le divisioni manichee mente-cervello e mente-corpo e ben lontana dal modello della scienza cognitiva, nelle varianti funzionalista e computazionalista, che metteva la mente fuori dal corpo. Il cervello <> (Damasio, 2003b, pp. 213-214). Ovviamente per fare questo, un organismo deve possedere una mente che gli consenta di avere il senso del sé (sense of the self) e il sentimento di sapere (the feeling of knowing) di sé perché dotato di coscienza (consciousness). L’ipotesi damasiana rispecchia esattamente l’orizzonte di senso della Pedagogia e della “pratica” dell’educazione: educare significa condurre l’organismo-Uomo sia al “senso-di-sé” sia al “sapere-di-se” per insegnargli a preoccuparsi e avere cura per la sua vita stessa. Probabilmente la Cura educativa possiamo considerarla, da un punto di vista filogenetico, una primigenia e arcaica funzione definibile anche in termini di apprendimento senso-motorio legata all’esigenza di mettere a punto strategie di difesa e di attacco legate a meccanismi di conservazione e riproduzione della specie. Con l’evoluzione della neo-corteccia e del sistema limbico la Cura ha acquisito una forma molto vicina a quella di un sapere emozionale che ha permesso alla specie Homo di essere consapevole della relazione emozionale con l’Altro e di controllare l’emissione e l’articolazione di suoni (linguaggio articolato) che potevano ora essere tradotti emozionalmente e che, dunque, assumevano precisi segnali di “legame interessato” (attaccamento) non solo nella dimensione più biologica di accudire, allevare, proteggere, ma anche in quella più culturale di orientare i suoi piccoli e perpetuare la propria esistenza lungo il Tempo. Vi sono parallelismi tra cura educativa materna e interazioni madre-bambino (sistema di attaccamento): queste ultime sono comunque un aspetto della prima. Infatti la cura educativa cui sono sottesi importanti processi cognitivi quali attenzione e memoria, input sensoriali e motori, include scambi relazionali affettivi, emotivi, di accudimento, ma l’obiettivo educativo “programmato” è, in ultima analisi, quello di sviluppare nel bambino comportamenti di sempre maggiore autonomia dalle figure parentali. Certamente anche la Cura educativa (stiamo alludendo a quella parentale) così come Bowlby aveva ipotizzato per l’attaccamento, ha una base genetica e precisi aspetti neurobiologici (Marazziti et al. 2008). L’evoluzione del sistema nervoso ha dunque permesso nella specie Homo la parallela evoluzione della Cura educativa (atto intenzionale tipicamente umano): con essa e grazie a essa l’Uomo non solo “esiste” ma “è”. La Cura educativa, legame biologico originario ha permesso all’Uomo di essere e di esser-ci anche in relazione alle “cose” della quotidianità, costruendo contesti culturali, materiali, relazionali ed esperienziali. Ancora una volta ritorna l’unità corpo-mente-cervello-cultura.
Emozioni (non importa se espresse in termini di feeling, sentimento da Damasio o in quelli di emotion, emozione da LeDoux) e coscienza non sono dunque separabili: la coscienza “si manifesta” come il sentimento di un “accadere”, un sentire profondo di quello che succede (the feeling of what happens) e che accompagna la creazione delle relative immagini all’interno del nostro organismo. Va comunque precisato che un organismo potrebbe rappresentare in schemi neurali e mentali un particolare stato (sentimento), senza avere coscienza (sapere) che quel sentimento sta avendo luogo. Occorre dunque distinguere –secondo Damasio- tra sentire e sapere di avere un’emozione (insieme di risposte complesse chimiche e neurali, molte delle quali si possono osservare esternamente), un sentimento (esperienza mentale di un’emozione), perché il sentire non implica necessariamente che l’organismo che sente abbia piena coscienza di quell’emozione e di quel sentimento. Le emozioni, secondo Damasio, sono processi biologici ben determinati, dipendenti da strutture cerebrali (una piccola area delle regioni subcorticali deputate alla regolazione e alla rappresentazione degli stati corporei) frutto di una lunga storia evolutiva. Infatti, l’osservazione che alcune risposte emotive, soprattutto le espressioni facciali, si presentino pressoché simili in tutte le culture umane, ha fatto ritenere a tanti studiosi, tra i primi Darwin, che vi fosse una origine biologica.
Le emozioni, manifestandosi attraverso il corpo, possono perfino alterarlo: si pensi, per esempio, al rossore, all’alterazione del ritmo cardiaco (bradi- o tachicardia) o respiratorio (bradi- o tachipnea), così come possono influenzare e/o alterare i circuiti cerebrali e gli schemi neurali. L’ippocampo e l’amigdala sono le formazioni del sistema limbico più direttamente coinvolte nella modulazione delle emozioni, nella formazione della memoria recente, nella regolazione delle risposte viscerali immediate, nell’induzione del comportamento aggressivo e nella capacità di riconoscere le espressioni di paura sul volto e attraverso la voce. La relazione emozioni/prosodia (componente emozionale del tono della voce) e emozioni/espressioni facciali (gioia, paura, disgusto, paura, sorpresa, rabbia, tristezza) rivestono una grande importanza nei vari setting pedagogici perché permettono di comprendere lo stato mentale della Persona cui è rivolta l’azione educativa. I collegamenti fra amigdala e ipotalamo, dove sembrerebbero originarsi le risposte emotive, permettono dunque alle emozioni di influenzare gli apprendimenti e la memorizzazione: l’educatore, l’insegnante, ma anche il pedagogista clinico, il riabilitatore e lo psicoterapeuta possono ingenerare meccanismi di apprendimento e memorizzazione grazie alle emozioni.
Da quanto scritto appare evidente che l’educazione professionale rappresenta una modalità di trattamento in grado di apportare, sia dei miglioramenti a livello clinico, sia dei significativi cambiamenti a livello cerebrale. Non esistendo in letteratura studi sul rapporto educazione-modificazione cerebrale, dobbiamo necessariamente prendere in considerazione ricerche sperimentali psicologiche e psicoterapeutiche condotte soprattutto in ambito psichiatrico. Questi studi hanno evidenziato che la psicoterapia apportando, nei pazienti psichiatrici studiati, significativi cambiamenti nell’attività neuronale di specifiche aree del cervello (soprattutto corticali e/o sottocorticali) e che, tali modificazioni appaiono correlate al miglioramento clinico, sintomatico, di questi pazienti. L’analogia dell’intervento pedagogico professionale con quello psicoterapeutico non sembri un passo azzardato: tutti e due gli approcci, percorsi di aiuto dell’uomo con e sull’uomo, si basano su alcuni punti comuni, il linguaggio, la relazione, le tecniche. Così come per le psicoterapie, anche l’educazione professionale e le pedagogie a indirizzo clinico e riabilitativo permettono all’individuo il raggiungimento della consapevolezza: dei ricordi, delle emozioni, degli stili di coping, per citarne alcuni.
(Orientamenti Pedagogici, luglio-agosto 2010)