Clinica (La) Aresu

 

SULLA   CLINICA  “MARIO  ARESU”,  ORA   SEDE   DELLA

FACOLTA’   DI   LINGUE   E   LETTERATURE   STRANIERE,   CAGLIARI

Quisquis huc accedis: / Quod tibi horridum videtur / Mihi amænum est. / Si placet maneas / Si tædet abeas, / Utrumque gratum.


Sulla parte sinistra della scalinata monumentale della ex clinica medica “Mario Aresu”, che porta al ventoso atrio visitato dai piccioni locali [ora  non più perché il vecchio portone dai vetri rotti è stato sostituito], alla sinistra, dunque, della scala, in basso, vicino ad un cestino dei rifiuti, si nascondono, all’ombra di una gigantesca [pseudo]acacia, due lapidi. Quella superiore reca la scritta appena riprodotta, senza traccia di traduzione e non per caso. Ai tempi in cui è stata esposta la lapide, primi anni Cinquanta, l’epigrafe risultava comprensibile alle persone con studi classici, certamente non ai poveracci del quartiere o ai malati afflitti da guai ben diversi da quelli ciceroniani, oppure ai loro parenti e visitatori preoccupati o piangenti, i quali, se avessero avuto tempo e modo per capire la scritta in latino, sarebbero scappati a gambe levate, anche in punto di morte. Ora ci passano davanti numerosi giovani studenti che per svariate ragioni non notano e nemmeno comprendono la scritta, quasi quasi per fortuna, direi. Cuorna, bicuorna … !

L’ingresso alla ex Clinica Aresu e in genere le sue parti strettamente perimetrali espongono un vero programma architettonico ed estetico che purtroppo è stato lentamente e quasi definitivamente messo in ombra, si fa per dire (intendi: deturpato), non tanto da due enormi e bellissimi alberi quanto da successivi interventi edilizi, sicuramente generati da necessità funzionali, ma brutti, incoerenti e soprattutto maldestri. Se avessi avuto potere e capacità, nel momento della rifunzionalizzazione degli edifici, qualche anno fa, avrei fatto demolire almeno la baracca prefabbricata antistante che un tempo sembra abbia ospitato il reparto di epatologia guidato da un’eminente studiosa.

Raccontiamo un po’ delle origini della Clinica.

La gradinata a ventaglio (ora affettata da due corrimano metallici che potevano benissimo essere piazzati discretamente sui due lati), i due balconi paralleli, che fanno venire in mente “Itaglianiii!!!…”, racchiusi in un’ampia arcata in stile EUR, tradiscono inequivocabilmente il periodo della progettazione: anni Trenta. E’ difficile sapere com’era allora la Fossa di San Guglielmo dove è stata costruita questa clinica, sito forse di un’antica cava di pietre per la costruzione di Castello, come lo era diventata anche l’anfiteatro romano. Certo è che la scalinata della Clinica, viste le sue dimensioni, doveva dare su un piazzale ampio ora soffocato da altri edifici parassitari e labirintici, e che dalla parte alta di Via Cammino nuovo, purtroppo ora impraticabile, si poteva avere una visione frontale e spettacolare della facciata. Questa storia andrebbe meglio documentata.

La roccia calcarea che incombe sulla Clinica è sostenuta, verso via Porcell, da megagradini di cemento armato, perché è piena di grotte, cisterne, accumuli di acque, dovuti alle plurimillenarie frequentazioni umane del sottosuolo della collina. L’idea della Clinica da impiantare vicino all’Ospedale civile S. Giovanni di Dio era stata di Mario Aresu (1892 – 1963), ritenuto un ottimo medico, professore universitario e poi rettore dell’Ateneo cagliaritano negli anni Trenta, energico organizzatore, preside della Facoltà di Medicina tra il 1955 – 1962 ed altro ancora di cui comunemente si sa poco e non si dice nulla. Forse il nome della via Fiume che collega Castello a Buoncammino, proprio al di sopra della Clinica, allude alle sue frequentazioni dannunziane, poiché – così raccontano i suoi biografi – nel primo dopoguerra partecipò all’impresa di Fiume accanto a D’Annunzio. Nonostante le qualità professionali di Mario Aresu, il progetto edilizio riguardante la futura clinica fu osteggiato, poi interrotto dalla guerra, e si potè realizzare soltanto agli inizi degli anni Cinquanta. Nel frattempo, durante i bombardamenti di Cagliari, le grotte erano servite da rifugio per i malati dell’ospedale e per il suo personale. Oggi sono, parte di esse, depositi per pacchi marcescenti e dimenticati che contengono le pubblicazioni dei candidati ai concorsi universitari locali. Ci sono anche continui misteriosi lavori in corso [che continuano fino a tutt’oggi; da quando la Facoltà di Lingue è stata insediata nella ex-Clinica Aresu, tutti i dintorni – e spesso gli interni – sono un incessante cantiere; ott. 2014].

La scritta della prima lapide sembra voler alludere alle controversie, aspre ma superate, ai “ritardi e animosità di ogni genere” che si sono manifestati verso il il progetto della clinica e verso il suo ideatore. La seconda lapide, in italiano, ci spiega però che l’iscrizione latina è copia di una famosa “rinvenuta del giardino della Farnesina di Agostino Chigi”. Ma cosa commemora veramente l’epigrafe originaria? Sicuramente si tratta di un epitaffio sepolcrale romano, e non di parole che potrebbero adattarsi a un discorso d’epoca di Mario Aresu. E’ un antico defunto che si rivolge al passante, secondo un noto stilema funerario: “Tu che accedi a questo luogo, chiunque tu sia, sappi: Per quanto esso ti sembri orrido, a me invece piace. Rimani, se ti garba, puoi andartene, se ti disgusta. Va bene allo stesso modo.” Idea bizzarra e macabra  esporre questa scritta su di un ospedale; infatti non è stata tradotta. Oppure piuttosto grottesca, nel senso artistico del termine, dal momento che intorno alla clinica Aresu si addensano una serie di componenti che non stonerebbero affatto nel parco cinquecentesco di Bomarzo. Anzitutto due grandissimi alberi, l’acacia che pietosamente ombreggia la nostra lapide funebre e un altro a destra, sicuramente esotico, i cui strati di accrescimento, una volta seccati (fenomeno osservabile sui fragili rami abbattuti dal vento) sembrano di carta e che a maggio-giugno ha una fioritura a grappolo dall’aspetto mimetico ma profumata [si tratta di Phytolacca Dioica, in portoghese Bela-sombra, e a ragione, originaria della pampa dell’America del Sud; http://it.wikipedia.org/wiki/Phytolacca_dioica; ottobre 2014. I palmizi [nel frattempo distrutti dall’insetto chiamato punteruolo rosso http://it.wikipedia.org/wiki/Rhynchophorus_ferrugineus; ott. 2014]. L’aiuola degli acanti, sul lato destro dell’edificio. Ma ancor prima, la vasca oblunga dei pesci adagiata al muro di sostegno, che forse era stata pensata per raccogliere l’acqua sgorgante dalle vene della roccia.

Un  mio collega inglese l’ho sorpreso contemplativo davanti alla vasca e lui così ha commentato: a Cagliari ci sono angoli bellissimi e insospettati.

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