Estratti dalla relazione di Alberto Civica (Segretario Generale) al 1° Congresso Nazionale UILPA UR Afam

  • Riduzione dei comparti di contrattazione

    Nel d.lgs. 150, il Ministro per la F.P. ha fortemente voluto che i comparti di contrattazione siano solo 4, in ossequio ad un principio di razionalizzazione che meglio sarebbe definire di “massificazione”. Un “contrattone” che dovrebbe vedere raccolti più comparti, con buona pace delle specifiche professionalità e della peculiare organizzazione del lavoro, certamente elemento tipico dei nostri comparti. Il Ministro Brunetta ha dichiarato a noi gli stessi no che Tremonti dice a lui: e se siamo tutti uguali, perché rivendicare trattamenti diversificati?

    Abbiamo fatto presente che, se proprio si volevano ridurre i comparti, magari si potevano accorpare i contratti dell’Università, della Ricerca e dell’AFAM: invece l’unico comparto specifico riconosciuto è quello dei dipendenti della Presidenza del Consiglio.

    Quindi la prima battaglia da fare sarà quella tesa a recuperare e mantenere uniti i nostri comparti e, nel frattempo, operare per creare una sezione contrattuale autonoma per i nostri settori, singolarmente o insieme non importa perché riteniamo che questa sia l’unica possibilità per continuare a garantire il riconoscimento di quelle specificità che ci caratterizzano.

    A questa ipotesi stiamo lavorando con la Confederazione; al momento godiamo del sostegno della UILPA e della UIL.

    Non intendo anticipare io le ipotesi che CISL Università, Cisl Fir e FLC CGIL intendono portare avanti: se lo riterranno potranno esporle direttamente loro.

    Ma la sezione autonoma contrattuale non basta; esiste un ulteriore problema, la sua collocazione, che rappresenta per così dire una scelta, una vera e propria opzione politica.

    L’autonoma sezione contrattuale va prevista nel comparto insieme alla scuola, oppure in quello delle cosiddette amministrazioni centrali (ministeri, parastato, agenzie fiscali ecc)?

    La questione non è banale, e per quanto ci riguarda abbiamo le idee molto chiare. Noi riteniamo che il nostro inserimento nel comparto con la scuola sarebbe la fine dei nostri settori per diverse ragioni:

    – il sistema ordinamentale che regola il comparto scuola, diverso rispetto a quello dell’università, della ricerca e anche da quello dell’AFAM, che pure sembra essergli quello più vicino;

    – il diversissimo assetto istituzionale degli enti di ricerca e delle università, che per la loro autonomia li rendono molto più simili rispettivamente agli enti del parastato e agli enti locali che non alle scuole. Per non parlare dell’AFAM, il cui complesso sistema dei poteri li rende peculiari e imparagonabili.

    Un’ultima considerazione attiene anche alle ragioni “politiche” che dividono la Scuola dall’Università, dalla Ricerca e dall’AFAM. Per dirla con le parole di Antonio Ruberti c’è una enorme differenza tra chi produce nuova conoscenza (Università, Ricerca e come sostenuto nell’ultima riforma del 1999 anche AFAM), e chi diffonde la conoscenza che esiste (Scuola). Questa diversità ha portato più volte a separare il Ministero dell’Università e della Ricerca – e l’AFAM ne ha sempre seguito le sorti – da quello dell’Istruzione.

    Per inciso vogliamo ricordare che il Ministero fu creato per l’Università e per la Ricerca, per esaltare nella legge 168/89 – tuttora operante – l’autonomia e la specificità di Università e Ricerca.

    Oggi si parla ancora e nuovamente di separare i due ministeri, anche perché la consistenza numerica degli addetti alla Scuola, e la sua incidenza sulle famiglie, la porta a monopolizzare l’attenzione del sistema politico.

    In un Ministero unico ciò si traduce in uno svilimento delle tematiche di Università e Ricerca, che invece necessitano di una attenta e specifica considerazione. Residualità che potrebbe sconfinare impropriamente anche nelle questioni del personale, visto che il Miur avrebbe tutto l’interesse a parlare con un unico interlocutore sindacale.

    La nostra opzione è quindi chiara:

    – ottenere una o più sezioni autonome contrattuali;

    – collocare tali sezioni nel comparto delle amministrazioni centrali.

    Trattenute per malattia

    Si può affermare, senza tema di smentita, che questa norma nell’intenzione del ministro Brunetta fosse finalizzata a disincentivare, attraverso una vera e propria sanzione pecuniaria, i falsi malati. Ora, a parte l’ovvia considerazione che così si punisce anche chi è veramente ammalato, questo sistema ha delle evidenti contraddizioni: la più eclatante è quella determinata dal suo meccanismo di applicazione.

    Come è noto la penalizzazione economica avviene sul salario accessorio, quindi un docente universitario, che non ha salario accessorio, non subisce alcun effetto dall’applicazione di questa norma. Ovvero la norma si applica anche a lui, ma è inefficace.

    Il paradosso è quindi che un bidello che si ammala paga dai 10 ai 15€, mentre un docente che si ammala non paga nulla.

    L’esempio portato non si propone di far pagare anche i docenti, ma solo di denunciare l’irrazionalità del provvedimento.

    Nel comparto della Ricerca un tecnico di 4° livello può arrivare a pagare più di 30€ per un giorno di malattia, mentre un Dirigente di Ricerca ne paga 5, di euro.

    E’ normale ?

    Progressioni verticali

    Il decreto Brunetta cancella le progressioni di carriera per concorso interno, e lo fa obbligando le amministrazioni a ricoprire i posti in pianta organica esclusivamente per concorso pubblico, concedendo ai dipendenti, se l’amministrazione ritiene, una riserva di posti al massimo del 50% ; il ddl Gelmini invece arriva a prevedere che per diventare ordinari si pesca solo all’interno degli Atenei.

    Si è completamente rovesciato il mondo: concorso pubblico per il personale tecnico-amministrativo e chiamata interna per i docenti.

    Progressioni economiche

    Docenti che continueranno ad avere gli scatti di retribuzione triennali e non più biennali ma senza perdita economica, dice sempre il disegno di legge Gelmini (cioè il 12% triennale invece dell’8% biennale), con esclusione dal beneficio per chi “demerita” – mentre per il personale tecnico amministrativo si prevede la selezione e comunque, dice il decreto legislativo Brunetta, è imperativo che il beneficio venga dato a una quota limitata di dipendenti.

    Va detto che mentre lo scatto dei docenti è aggiuntivo rispetto all’incremento per così dire contrattuale delle retribuzioni, e ha quindi le caratteristiche tipiche del sistema premiale, la progressione economica del personale tecnico-amministrativo è pagata con i soldi dell’incremento contrattuale, con buona pace di tutti quei soloni che fanno carriera andando in tv a sostenere che i contratti prevedono aumenti uguali per tutti.

    “Perfomance” e sua valutazione

    Per evitare polemiche tralascerò di evidenziare quanto sia profondamente sbagliato ipotizzare che un accordo sindacale – o anche in sua assenza – la singola amministrazione possa individuare il numero di dipendenti che “demeriteranno”, ai quali attribuire la fascia più bassa della performance. Chiunque abbia mai diretto un ufficio sa che casomai è il contrario, ovvero è proprio dal sistema di valutazione che scoprirai se c’è personale che demerita!

    Come si ridurranno i nostri stipendi

    La cosa più grave e più importante è la previsione del c. 3 bis, dell’art.54 del d. lgs. 150 là dove, nel definire le risorse da destinare alla performance, si recita: “A tale fine destina al trattamento economico accessorio collegato alla performance individuale una quota prevalente del trattamento accessorio COMPLESSIVO COMUNQUE DENOMINATO”.

    La dizione “trattamento accessorio complessivo” insieme a “comunque denominato” mette in discussione tutte le voci dell’accessorio, anche quelle che nel tempo abbiamo stabilizzato, come la cosiddetta 14ma degli EPR e dell’università, l’indennità di ente mensile della ricerca e quella mensile dell’università (ex art. 41).

    Si realizza così un danno incommensurabile per i nostri lavoratori, che perderebbero migliaia di euro di liquidazione e centinaia di euro di pensione.

    Saremmo i primi ad essere contenti se qualcuno smentisse la nostra interpretazione: purtroppo al momento non è così, anzi ci arrivano direttamente e indirettamente conferme anche dalla Funzione pubblica.

    Il meccanismo della performance crea ulteriori paradossi:

    a) i lavoratori inseriti nella fascia più alta del merito, i bravi cioè, si vedrebbero aumentare il salario accessorio, scontando però il taglio della liquidazione e pensione che colpisce tutti in virtù della perdita della fissità e ricorrenza degli emolumenti prima stabilizzati. A conti fatti molti lavoratori ne avrebbero una remissione comunque;

    b) i lavoratori “normali”, cioè quelli che non demeriteranno, avranno la remissione certa, derivante dal taglio della liquidazione e pensione. Questi lavoratori – ovvero quelli che hanno fatto il proprio dovere, questo concetto va ben ripetuto – rischiano una diminuzione della retribuzione accessoria tanto più forte quanto minore sarà la percentuale dei fannulloni che verrà stabilita. Insomma se in un ente non ci sono fannulloni tutti prendono di meno, e non “un po’” di meno, ma “assai” di meno: i nostri calcoli ci fanno stimare un 35% di rimessa;

    c) infine, chi sarà inserito nella fascia più bassa praticamente non pagherà nulla per i giorni di assenza per malattia (anche perché che altro gli vuoi togliere, già ha perso mezzo stipendio!); mentre chi sarà inserito nella fascia alta del merito, che proprio per questo si ipotizza non sia un assenteista, e quindi se sta a casa vuol dire che veramente non sta bene, sarà “premiato” e la conseguenza sarà che la sua trattenuta per un giorno di malattia sarà doppia!

    I paradossi sono tanto evidenti da non indulgere in altri esempi.

    La descrizione degli effetti dei provvedimenti emanandi e emanati dal Governo e delle contraddizione che tali previsioni normative evidenziano, ci consente di affermare che proprio queste contraddizioni e questi paradossi saranno la via attraverso la quale il tavolo di confronto con il Governo si dovrà riaprire: a nostro avviso le stesse amministrazioni saranno indotte a dichiarare la ingestibilità di una normativa siffatta.

    “La disinformazione fa male ai lavoratori”

    C’è chi sostiene maliziosamente che il decreto Brunetta sia figlio dell’accordo sottoscritto anche da UIL e CISL con il Governo sulla riforma del modello contrattuale.

    Sostenendo questa tesi si vorrebbe affermare, arditamente e non proprio in buona fede, che chi è stato d’accordo con il governo per la sottoscrizione della riforma del modello contrattuale è certamente d’accordo anche con il decreto Brunetta.

    Ma basta leggere il testo dell’accordo sulla riforma della contrattazione per rendersi conto che mentre il decreto Brunetta riduce la contrattazione, nell’accordo è confermata e anzi potenziata la contrattazione di primo e di secondo livello.

    Riteniamo semmai che nelle ragioni dello sciopero generale previsto dalla UIL per il 21 Dicembre prossimo andrebbe inserita anche la violazione dell’accordo per la riforma del modello contrattuale, operata proprio con il d.lgs 150/09.

    Ho definito “maliziosi” e in dubbia buona fede i sostenitori di questa tesi perché essi giocano sulla scarsa conoscenza dei testi di cui stiamo parlando: ciò diventa palese quando da alcuni di questi stessi esponenti sindacali mi sono sentito ironicamente chiedere che cosa mai sia questa IPCA. Ho semplicemente risposto che l’IPCA è l’indice previsionale armonizzato europeo, individuato nella piattaforma unitaria UIL-CGIL-CISL per la riforma del modello contrattuale per il rinnovo dei contratti: piattaforma unitariamente presentata al Governo Prodi e poi ripresentata al Governo Berlusconi.

    Poiché l’IPCA è l’IPCA se andava bene con Prodi va bene anche con Berlusconi.

    La presunta riforma dell’Università

    Non ci piace il ddl Gelmini sull’università, e continuiamo a non capire perché venga definito “riforma dell’università”.

    Dopo tutto il can can sulle inefficienze del sistema universitario, finalizzato a restituire un po’ di risorse agli atenei – che non sanno come fare i preventivi e in alcuni casi come arrivare alla fine dell’anno -, occorreva forse produrre qualcosa da spendere come una “riforma”, senza però disturbare troppo il potere accademico, come noto ben radicato nel Parlamento e nel Governo. Anzi, proprio il silenzio del potere accademico conferma che il testo non riforma un bel nulla!

    Eppure noi riteniamo che l’università avrebbe certamente bisogno di essere ripensata.

    Quello che critichiamo del DDL è che:

    1) la battaglia sulla istituzione della terza fascia docente, sostenuta da molte forze politiche, dopo vari governi si sia risolta con l’abolizione del ruolo dei ricercatori;

    2) il ruolo dei ricercatori viene sostituito da un precariato strutturale, che vivrà di assunzioni di annata, sperando che il Ministro di turno riuscirà a trovare soldi per le assunzioni. Ma se l’annata non è buona resteranno fuori;

    3) tutto il problema della “governance” si è risolto con il dare al Rettore un potere forse non assoluto ma certamente molto più forte di prima, visto che:

    a) sarà il rettore a scegliere i membri del c.d.a.;

    b) nonostante i limiti temporali posti alla durata, il numero dei mandati dei Rettori può essere aumentato in virtù di quell’autonomia che su questo aspetto non sembra essere toccata;

    c) l’esclusione del personale, in particolare quello tecnico – amministrativo, dalla gestione e dalla vita democratica degli atenei.

    4) la trasformazione del Direttore Amministrativo in Direttore Generale, al di là della mera modifica lessicale, è stata propagandata come l’introduzione della figura del “manager”, come se gli attuali Direttori Amministrativi non lo fossero; l’ipotesi ci fa venire il dubbio che se di manager si deve trattare, allora è probabile che il posto possa essere ricoperto anche da un docente;

    5) la reintroduzione, nella sostanza, dei lettori di madre lingua con la istituzione dei “lettori di scambio” ripropone uno schema che è stato fonte di enormi guai, riuscendo nella operazione magistrale di aver speso enormi risorse di tempo e denaro per spiegare al mondo che un lettore di madre lingua è un insegnante e non un docente, non riuscendo ovviamente a retribuire adeguatamente questi lavoratori! BAH! ;

    6) sul diritto allo studio le risorse sono in preoccupante diminuzione; il provvedimento non inverte il processo e certo non può essere di conforto il sapere che la loro distribuzione passerà per tortuosi meccanismi selettivi. Una cosa è certa: con meno soldi il numero di studenti che potrà usufruire di questi benefici sarà minore rispetto al passato.

    I nostri propositi, le nostre speranze

    Il pessimismo sul futuro sembrerebbe prevalere sull’ottimismo, sulle certezze e sui grandi obiettivi del passato, per restringere orizzonti e prospettive.

    Ma noi non molliamo. Continueremo a presidiare i nostri ambiti e a lavorare per allargare quegli spazi politici e sindacali necessari a valorizzare il ruolo e centralità dei nostri settori.

    Ci conforta in questo la scelta di quella vasta parte del mondo del lavoro che negli atenei, negli enti e nell’AFAM vede nel sindacato e nella UIL uno strumento di tutela e di valorizzazione, e nei suoi quadri dei compagni di viaggio di cui ci si può fidare ed a cui ci si può affidare.

    Ci confortano e ci danno sicurezza i numerosi interventi di questi anni del Capo dello Stato, Giorgio Napoletano, cui noi da questa tribuna rivolgiamo un deferente saluto. Capo dello Stato che ringraziamo per l’attenzione sempre viva e per i costanti richiami verso il mondo della cultura e della scienza, così come vivi furono quelli di Carlo Azeglio Ciampi.

    Giorgio Napolitano ricordava nei giorni scorsi che senza moralità non vi può essere saggia e buona azione politica, e che il problema prioritario del nostro Paese è la sua crisi morale. Condividiamo questa analisi e questo appello e ci permettiamo di aggiungere che non ci possono essere moralità, senso dello Stato e delle istituzioni, spirito di servizio e salvaguardia dell’interesse generale senza saperi e senza vera cultura.

    Continueremo a chiedere maggiore autonomia, anche dentro la UIL, per portare avanti nel migliore dei modi le istanze dei lavoratori e le specificità dei nostri settori, senza doverci troppo preoccupare di equilibri che non vogliamo toccare, di suscettibilità che non vogliamo ferire.

    Ricerca. Cultura. Arte. Il futuro è già nato. E per noi il futuro nasce ogni giorno.

    Viva la UIL. Viva i lavoratori.