L’Università reale

  • (da: Il Fatto Quotidiano, 13 dicembre 2009)
    di Francesco Sylos Labini (*) e Stefano Zapperi (**)

    L’organizzazione dell’università ideale è stata descritta in ogni dettaglio da alcuni economisti della Bocconi. Il modello è quello di un’università a gestione privatistica, finanziata principalmente dalle rette studentesche e non più dallo Stato, con totale libertà nel reclutamento e nella didattica. Questo sistema garantirebbe eccellenza, farebbe scomparire il nepotismo accademico e chiudere le università improduttive.
    Tuttavia, per portare a compimento un programma di questo tipo, occorre prima di tutto radere al suolo il sistema esistente.
    A questo fine giova dimostrare che l’università e la ricerca italiana sono di qualità assolutamente scadente nonostante siano finanziate addirittura in maniera eccessiva.
    Si sbandierano le classifiche internazionali e si scelgono gli indicatori statistici più appropriati sulla produttività scientifica e sulla spesa pubblica destinata all’università, utilizzando a volte metodi discutibili per tirare le statistiche dalla propria parte.
    Il modello sembra rifarsi a una versione estremizzata del sistema universitario statunitense dove le rette sono in genere molto alte anche se esiste una vasta rete di università pubbliche.
    In Europa il sistema universitario è invece prevalentemente pubblico, con rette studentesche che in molti casi sono addirittura inferiori a quelle italiane. Inoltre vi è spesso un forte sostegno al “diritto allo studio”, con residenze universitarie e borse di studio che manca in Italia.
    Se vogliamo imitare gli altri paesi, perché non cominciare portando il finanziamento a università e ricerca al livello degli Stati Uniti o almeno a quello della media dei paesi Ocse? Il disegno di legge sull’università recentemente presentato dal governo aggiunge un tassello al piano di smantellamento del sistema pubblico e di costruzione del nuovo modello privatistico. A questo piano concorrono i tagli strutturali al finanziamento universitario decisi l’anno scorso dal governo (legge 133/08), che stanno mettendo in seria crisi molte università che l’anno prossimo potrebbero non essere in grado pagare gli stipendi ai propri docenti.
    Citiamo anche il rallentamento delle procedure di assegnazione dei fondi per la ricerca (i progetti per il finanziamento della ricerca di base a livello nazionale per il 2009 sono ancora da assegnare) e la loro riduzione quantitativa (-30% in 5 anni), il rinvio di concorsi e assunzioni di personale docente.
    Tutte queste misure vengono presentate di volta in volta come dovute all’emergenza finanziaria o dettate da problemi tecnici. Sembrano invece in perfetto accordo con il modello teorico enunciato sopra e con la sua applicazione che richiede come primo passo la distruzione dell’esistente . La mancanza di risorse costringerà di fatto le università ad aumentare le rette studentesche e ad avviarsi a un modello di gestione privatistico. Inoltre la riforma della governance universitaria contenuta nel nuovo disegno di legge riduce le funzioni del senato accademico a favore di un consiglio di amministrazione con una forte componente di esterni. Di fatto si chiede ai privati di gestire l’università pubblica, senza richiedere nulla in cambio in termini di finanziamento. Una vera manna. Inoltre vengono incrementati i poteri del rettore, eletto non più da tutto il corpo accademico, ma da una ristretta cerchia di professori ordinari “con provata competenza manageriale”. In sostanza la scelta è lasciata ai soliti baroni che hanno ricoperto cariche accademiche fino ad ora.
    Il fumo che avvolge questa operazione è la “meritocrazia” parola che se presa sul serio da coloro che continuamente la invocano, dovrebbe indurre a immediate dimissioni. Per “premiare il merito” si cambiano le regole di reclutamento, abolendo definitivamente il ruolo di ricercatore, introducendo la tenure-track e cioè un contratto di 3+3 anni “eventualmente” seguito dall’assunzione come professore associato.
    Negli Stati Uniti una tenure-track è un contratto che alla fine di un periodo di prova, in genere di cinque anni, prevede l’assunzione a tempo indeterminato se la valutazione è positiva. E’ quindi prevista da subito la copertura finanziaria per l’eventuale posizione tenured.
    Nella versione italiana invece, la conferma nel ruolo di associato avviene dopo il conseguimento di un giudizio di idoneità nazionale e il superamento di un concorso locale. Paradossalmente è il vecchio posto di ricercatore ad assomigliare alla tenure-track americana: in teoria sarebbe previsto un periodo di prova di tre anni prima della conferma in ruolo. In Italia però le regole sono spesso formali e la conferma in ruolo è stata data sempre per scontata. Dunque invece di abolire il ruolo di ricercatore sarebbe stato sufficiente rendere sostanziale la regola formale con una seria valutazione dell’attività del primo triennio. La nuova tenure-track fornirà principalmente bassa manovalanza per i baroni. Intanto i massimi vertici del mondo accademico invitano le nuove generazioni di ricercatori a fuggire dall’Italia. Ci chiediamo se non sarebbe meglio che se ne andasse qualcun altro.

    (*) Centro Enrico Fermi, Roma
    (**) Cnr, Modena